Confisca di prevenzione ed evasione fiscale: Cass. Pen., sez. V, 05.03.2015 n. 9726

Diritto penale

L’art.2-ter impone di dimostrare non solo la provenienza del bene, ma anche la sua provenienza legittima: ciò non può dirsi ove la giustificazione della disponibilità del bene sia nel provento di evasione fiscale

 

Ritenuto in fatto

1. Su impugnazione dei soggetti indicati in epigrafe (T.L. nella veste di persona sottoposta a misura di prevenzione, gli altri quali terzi interessati), la Corte di appello di Napoli, in data 22/11/2012, revocava la confisca che il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere aveva imposto ex art. 2-ter della legge n. 575 del 1965, con decreto emesso il 14/07/2011, su una pluralità di beni intestati o comunque da ritenere riferibili al T. : a quest'ultimo, contestualmente, veniva ridotta la durata della misura di prevenzione personale disposta a suo carico in forza del medesimo decreto del giudice di primo grado.

Nel motivare le ragioni dell'accoglimento del gravame quanto alla misura di carattere patrimoniale, la Corte territoriale segnalava innanzi tutto che l'art. 2-ter sopra ricordato “prevede la confisca dei beni la cui provenienza non sia giustificata ed il cui valore sia sproporzionato rispetto al valore del reddito dichiarato o dell'attività economica lecita svolta. Da tanto deve desumersi che, qualora sia accertata la sproporzione rispetto al reddito dichiarato, deve verificarsi se sussista attività economica che abbia prodotto redditi di provenienza lecita ma sottratti al fisco, valutando in tal caso se anche avuto riguardo a tali redditi sussista la ripetuta sproporzione. La norma non ha inteso sanzionare con la confisca i beni acquistati mediante provvista di lecita provenienza sottratta all'imposizione fiscale, ma esclusivamente imporre la confisca di beni acquistati mediante provvista di origine ignota (o comprovatamente illecita)”.

Tanto premesso, i giudici di appello segnalavano che, dagli accertamenti compiuti e dal diretto esame degli amministratori giudiziari nominati a seguito del sequestro preventivo delle imprese facenti capo al T. (titolare di una concessionaria di motoveicoli), era emersa la capacità del gruppo imprenditoriale di produrre utili rilevanti, anche in ragione di un cospicuo affidamento riconosciuto dalla casa madre "Honda", con elevato flusso di cassa: sul piano fiscale, l'azienda aveva aderito ad un "condono tombale" nel 2002, versando oltre un milione di Euro, dimostrando così la tendenza all'evasione già prima di quell'anno (tendenza confermata negli esercizi successivi, dove i redditi prodotti risultavano contenuti attraverso l'alterazione dei dati relativi alle rimanenze di magazzino). Il meccanismo appena rilevato risultava consolidato nel tempo, come verificato anche da una consulenza tecnica disposta dal Pubblico Ministero, ma quella stessa relazione aveva chiarito che nelle casse dell'impresa non erano venute a confluire entrate di provenienza incerta o sospetta, così come i movimenti sui conti bancari apparivano congrui rispetto agli utili: in concreto, erano stati sottratti al fisco non meno di 500.000,00 Euro all'anno, stimando al libero prezzo di mercato veicoli usati presenti in magazzino, e quella plusvalenza era stata utilizzata - come confermato dallo stesso T. - per acquisti immobiliari.

Richiamando la sopra evidenziata premessa, la Corte di appello di Napoli evidenziava quindi che “qualora la sproporzione tra valore del patrimonio e valore del reddito dipenda dall'evasione fiscale, l'art. 2-ter legge n. 575/1965 vieta la confisca del patrimonio, per le seguenti considerazioni. In primo luogo, se il legislatore avesse voluto sottoporre a confisca i beni di valore sproporzionato al solo reddito dichiarato, non avrebbe aggiunto l'inciso o all'attività svolta. Tale precisazione consente di affermare che la legge va interpretata nel senso che la confisca è consentita qualora la sproporzione sussista non solo con riferimento ai redditi dichiarati, ma anche in relazione ai redditi prodotti ma non dichiarati, purché non illeciti. Altrimenti il richiamato inciso sarebbe privo di senso. In secondo luogo, si osserva che la confisca è consentita solo in relazione ai beni di cui non sia giustificata la provenienza. Nel caso in cui si ricolleghi l'acquisto dei beni all'utilizzo di provvista garantita da evasione fiscale, è evidente che la provenienza è giustificata, ossia individuata. In terzo luogo, tale interpretazione è conforme alla ratio legis, laddove la confisca di prevenzione intende sottrarre al mercato beni di provenienza illecita, non già sanzionare l'evasione fiscale”.
A riguardo, ed a conforto della tesi sostenuta, il decreto impugnato richiamava alcuni recenti pronunce della Sezione Sesta di questa Corte.

I giudici di appello rappresentavano infine che non poteva assumere rilievo decisivo (in senso contrario all'interpretazione offerta) la circostanza che T.L. fosse stato condannato da altra sezione della stessa Corte napoletana per il delitto di cui all'art. 12-quinquies del d.l. n. 306 del 1992, in relazione agli stessi beni attinti dalla revocata confisca e sul presupposto che egli dovesse ritenersi un prestanome di soggetti aderenti ad organizzazioni criminali, cui riferire in concreto quel compendio: ciò in quanto la decisione ivi assunta non risultava aver tenuto conto degli specifici accertamenti patrimoniali svolti invece nel giudizio di prevenzione, del quale era necessario ribadire l'autonomia rispetto al processo penale (come più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità), principio valido anche in bonam partem.

2. Propone ricorso per cassazione il Procuratore generale presso la stessa Corte territoriale.
Il Pubblico Ministero lamenta il vizio di violazione di legge, giacché il tenore letterale del più volte evocato art. 2-ter dovrebbe semmai imporre una soluzione opposta a quella adottata con il decreto impugnato; osserva il ricorrente che, “se il legislatore avesse voluto sottoporre a confisca i beni dell'indiziato di appartenenza ad associazione mafiosa solo quando il loro valore fosse sproporzionato, contemporaneamente, ai redditi dichiarati ed a quelli provenienti dall'attività economica da lui svolta, avrebbe dovuto ricorrere, nel rispetto delle regole grammaticali, all'uso della congiunzione e per collegare tra loro le due espressioni reddito dichiarato ai fini delle imposte sul reddito ed attività economica propria. L'uso della disgiunzione o chiarisce, invece, come la volontà del legislatore fosse quella di sottoporre a confisca i beni anche quando la sproporzione sussista nei confronti di uno soltanto dei termini indicati (reddito dichiarato o proventi dell'attività economica)”.
Reputa inoltre il P.g. napoletano che lo stesso art. 2-ter non possa intendersi dettato a richiedere una mera giustificazione, purchessia, in ordine alla provenienza di un bene, imponendo invece che detta provenienza sia legittima: il che non è quando il bene in questione derivi da un'evasione fiscale, considerando peraltro che le norme sulla confisca di prevenzione “mirano a sottrarre alla disponibilità dell'indiziato di appartenenza a sodalizi di tipo mafioso tutti i beni che siano frutto di attività illecite, senza distinguere se tali attività siano o meno di tipo mafioso”.

3. Come segnalato in epigrafe, il Procuratore generale presso questa Corte, nel rassegnare le proprie conclusioni scritte, insta per il rigetto del ricorso, richiamando la stessa giurisprudenza di legittimità (della Sezione Sesta) menzionata nella motivazione del provvedimento impugnato: giurisprudenza, peraltro, intervenuta per lo più nell'applicazione del diverso istituto della confisca prevista dall'art. 12-sexies del d.l. n. 306 del 1992, convertito in legge n. 356/1992.

4. Nell'interesse di T.L. risultano essere state depositate in prima battuta tre memorie difensive, tutte volte a sollecitare il rigetto del ricorso del Pubblico Ministero.

4.1 Con una prima memoria, viene ricordato che un risalente orientamento giurisprudenziale aveva considerato legittima la confisca di beni non proporzionati ai redditi e da ritenere provento di evasione fiscale, anche in presenza di condoni, ma le più recenti pronunce - specificamente riportate -hanno chiaramente mutato indirizzo.

4.2 Le stesse sentenze degli ultimi anni vengono segnalate anche nella memoria depositata il 18/09/2013, con la quale si rappresenta che - in punto di pericolosità sociale - il ricorso del T. all'evasione fiscale dovrebbe comunque intendersi occasionale, tanto da non giustificare l'applicazione di misure di prevenzione di qualsivoglia natura: al contrario, già dinanzi alla Corte di appello era stata dimostrata l'origine lecita delle provviste con cui era stata finanziata l'azienda, nonché la proporzione fra i redditi prodotti e i beni riferibili allo stesso T. od agli altri membri della sua famiglia.

4.3 Con una terza memoria, depositata il 04/10/2013, la difesa deduce ancora che “i presupposti legittimanti la confisca ex art. 2-ter legge n. 575/1965 appaiono speculari a quelli richiesti dalla fattispecie di cui all'art. 12-sexies d.l. n. 306/1992. Rispetto a tale ultima ipotesi si registra una giurisprudenza assai copiosa circa i rapporti tra misura ablatoria ed attività economiche lecite, da un lato, ed evasione fiscale dall'altra (e ciò a differenza del dibattito giurisprudenziale, assai scarno, che ha interessato la previsione di cui all'art. 2-ter legge n. 575/1965)”. Il difensore del T. riporta quindi per esteso ampi stralci della sentenza della Sezione Sesta di questa Corte n. 49876 del 28/11/2012, nonché passi di ulteriori pronunce, sottolineando altresì il recente dibattito giurisprudenziale sulla natura - se assimilabile alle misure di sicurezza patrimoniali, ovvero se connotata da contenuto eminentemente sanzionatorio - della confisca di prevenzione.

5. All'udienza del 18/12/2013, il collegio ha disposto il rinvio a nuovo ruolo del processo, risultando rimessa alle Sezioni Unite - con ordinanza del precedente giorno 12, emessa dalla Prima Sezione di questa Corte ex art. 618 cod. proc. pen. - la specifica questione di diritto se, ai fini della proporzione dei redditi da attività economiche rispetto ai beni posseduti, preclusiva della confisca in materia di prevenzione, possano farsi valere anche i proventi frutto di evasione fiscale.

6. In data 29/05/2014 è quindi intervenuta la pronuncia del massimo organo di nomofilachia, le cui motivazioni sono state depositate il successivo 29 luglio (sentenza n. 33451, ricorrenti Repaci ed altri).
Le Sezioni Unite hanno affermato il principio di diritto secondo cui “ai fini della confisca di cui all'art. 2-ter della legge n. 575 del 1965 (attualmente, art. 24 d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159), per individuare il presupposto della sproporzione tra i beni posseduti e le attività economiche del soggetto, non deve tenersi conto anche dei proventi dell'evasione fiscale”. Detto principio risulta testualmente dalla successiva ordinanza n. 46837 del 30/10/2014, recante la correzione di un errore materiale contenuto nel corpo della pronuncia anzidetta (dove era stato omesso il "non" di cui all'ultima proposizione sopra ricordata), ma doveva intendersi comunque ricavabile dall'intero sviluppo del percorso motivazionale seguito dalle Sezioni Unite, fondato sulla chiara diversificazione di presupposti e disciplina fra gli istituti previsti dal richiamato art. 1-ter e dall'art. 12-sexies del d.l. n. 306 del 1992: come ribadito nell'ordinanza n. 46837, infatti, l'orientamento espresso dalla sentenza Repaci è che “né il proposto può legittimamente addurre a giustificazione dei propri accumuli patrimoniali, né il giudice positivamente considerare, eventuali proventi di evasione fiscale al fine della valutazione di legge circa la sproporzione tra i beni posseduti e le attività economiche”.

7. In vista dell'odierna udienza, la difesa del T. ha curato il deposito di ulteriori memorie.
7.1 Con un primo scritto del 28/08/2014, viene segnalato che l'interpretazione del dato letterale dell'art. 2-ter della legge n. 575 del 1965, offerta dal P.g. ricorrente, “non trova riscontro in alcun orientamento giurisprudenziale di legittimità e/o dottrinale, e confligge con la palese voluntas del legislatore in tema di confisca di prevenzione”: sarebbe invece consolidato un approccio esegetico secondo cui “la ratio legis delle misure di prevenzione patrimoniali, ed in particolare dell'art. 2-ter, è finalizzata ad operare una confisca dei beni di valore sproporzionato non solo al reddito dichiarato ma anche all'attività economica svolta, ed in particolare dei beni di cui non sia giustificata la provenienza”. Osserva quindi il difensore del proposto che il ricorso in esame presenterebbe profili di inammissibilità, in quanto - pur mirando formalmente a far valere ipotesi di violazione di legge - si risolve in una critica all'impianto motivazionale del decreto impugnato.
Nella memoria si ricorda infine la circostanza, chiaramente evidenziata da parte della Corte di appello di Napoli, dell'avvenuta escussione degli amministratori giudiziari delle aziende in sequestro, da cui era emersa con certezza l'assenza di iniezioni nelle casse sociali di capitali di provenienza sospetta, come pure di uscite non giustificate, oltre che la congruità delle operazioni bancarie compiute rispetto all'attività commerciale: ciò anche alla luce delle ulteriori dichiarazioni rese da Ti.Gi. , ispettore per la Campania di "Honda Italia", il quale aveva precisato come la concessionaria del T. avesse sempre fatturato notevoli somme nel corso degli anni. In definitiva, il patrimonio del suddetto (e del suo nucleo familiare) doveva ritenersi senz'altro giustificato e proporzionato a lecita attività imprenditoriale, anche se in parte ricollegabile alla già evidenziata evasione fiscale.

La difesa rileva infine che le conclusioni adottate dalla Corte di appello di Napoli con il provvedimento impugnato dal P.M. non incontrano smentite di sorta ad opera della sentenza Repaci, intervenuta medio tempore: oltre a doversi sottolineare che il presupposto della "sproporzione", nel caso di specie, non sussiste (essendovi, al contrario, documentata proporzione tra i beni posseduti e le attività economiche del T. ), va infatti tenuto presente che la vicenda sottoposta all'analisi delle Sezioni Unite riguardava un ben diverso caso di finanziamenti e gestioni commerciali che risultavano strettamente collegati a risorse originate da condotte di bancarotta, nonché a violazioni tributarie sistematiche e per importi molto elevati, tanto da rendere impossibile discernere i profitti leciti da quelli che tali non erano. Nell'odierna fattispecie concreta l'evasione fiscale derivava invece da una semplice alterazione delle rimanenze di magazzino, con contabilità in equilibrio e movimentazioni bancarie congrue: ergo, mentre in quel precedente “vi è la dimostrazione di un'attività sicuramente illegittima (perché frutto di evasione fiscale) ma la cui liceità non risulta accertata, nel caso in oggetto vi è un'attività presumibilmente illegittima [...] ma sicuramente lecita”.

7.2 Con una seconda ed ultima memoria del 03/09/2014, nell'interesse del T. si pone l'accento sulle dichiarazioni dei redditi concernenti le sue disponibilità, in particolare su quella presentata nel 2008 (relativa ai redditi dell'anno precedente) a seguito del ricordato sequestro: nell'occasione, erano stati gli amministratori giudiziari a fissare il corretto valore del magazzino alla data del 31/12/2007, a rilevare l'utile di esercizio ed a curare i successivi adempimenti, con un utile complessivo imponibile per poco più di 700.000,00 Euro. Cifra, questa, che porta a ricostruire un totale di redditi - per il T. ed i suoi familiari, come da analitico prospetto allegato - in rapporto di “assoluta proporzione rispetto agli investimenti effettuati ed al netto dei disinvestimenti”, tanto che “i proventi frutto di evasione fiscale non sono necessari a dimostrare la proporzione con gli investimenti effettuati, a tal fine apparendo sufficienti i redditi dichiarati e tassati dal 1993 al 2007”.

Considerato in diritto

1. Il ricorso deve trovare accoglimento.

2. È necessario prendere le mosse dalla già ricordata sentenza Repaci delle Sezioni Unite di questa Corte, in vista della quale il collegio aveva inteso rinviare a nuovo ruolo la trattazione del processo.
2.1 Le Sezioni Unite hanno preliminarmente osservato - sul tema della deducibilità dell'evasione fiscale al fine di giustificare la sproporzione degli accumuli patrimoniali ai fini della confisca di prevenzione - che la giurisprudenza di legittimità “ha espresso una solida unità di indirizzo, in senso nettamente negativo, di cui non può non prendersi atto. Si rinviene invero solo una pronuncia in senso contrario (Sez. VI, n. 44512 del 24/10/2012, Giacobbe, Rv 258366) che giunge alle sue conclusioni [...] fondandosi sull'elaborazione giurisprudenziale formatasi in tema di confisca ex art. 12-sexies legge n. 356/1992 [...], ma che [...] non si pone il problema dell'eventuale equiparabilità dei due tipi di confisca”. Richiamando le argomentazioni sottese al consolidato orientamento appena evidenziato, il massimo organo di nomofilachia rileva dunque come la giurisprudenza abbia “costantemente considerato che le disposizioni sulla confisca di prevenzione mirano a sottrarre alla disponibilità del proposto tutti i beni che siano frutto di attività illecite e che ne costituiscano il reimpiego, di tal che non è necessario distinguere se tali attività siano o meno di tipo mafioso, essendo sufficiente la dimostrazione dell'illecita provenienza dei beni confiscati, qualunque essa sia, anche se gli stessi costituiscano il reimpiego dei proventi dell'evasione fiscale”.
Inoltre, in via di confutazione della tesi di una presunta sovrapponibilità delle previsioni di cui agli artt. 2-ter della legge n. 575 del 1965 e 12-sexies del d.l. n. 306 del 1992, nella sentenza Repaci si legge che secondo la giurisprudenza prevalente la confisca disciplinata da quest'ultima norma “è connotata da una diversa ratio legis e da presupposti in parte diversi, giacché richiede la commissione di un reato tipico, per giunta accertato da una sentenza di condanna, ordinariamente generatore - per la sua tipologia - di disponibilità illecite di natura delittuosa, ancorché l'adozione del provvedimento ablativo prescinda (anche in questo caso) da un nesso di pertinenzialità del bene con il reato per il quale è intervenuta la condanna [...]. La confisca di prevenzione persegue un più ampio fine di interesse pubblico, volto all'eliminazione dal circuito economico di beni di sospetta provenienza illegittima - siccome appartenenti a soggetti abitualmente dediti a traffici illeciti dai quali ricavano i propri mezzi di vita - che sussiste per il solo fatto che quei beni siano andati ad incrementare il patrimonio del soggetto, a prescindere dal perdurare a suo carico di una condizione di pericolosità sociale attuale, ma anche dall'eventuale provenienza dei cespiti da attività sommerse, fonte di evasione fiscale. In altri termini, la finalità preventiva perseguita con lo strumento ablativo risiede nell'impedire che il sistema economico legale sia funzionalmente alterato da anomali accumuli di ricchezza, di cui il soggetto possa disporre per il reimpiego nel circuito economico-finanziario, ragione per la quale devono considerarsi di provenienza illecita anche i redditi acquisiti per effetto dell'evasione fiscale”.

Evocando poi ulteriori approdi delle più recenti pronunce adesive all'orientamento dominante, le Sezioni Unite segnalano che soltanto nel citato art. 12-sexies “la presunzione di illecita provenienza dei beni del condannato viene ancorata letteralmente ed esplicitamente al combinato disposto della sproporzione rispetto all'attività economica svolta e dell'assenza di giustificazione, ma non anche, in alternativa, alla esistenza di sufficienti indizi della loro provenienza da qualsiasi attività illecita. In altri termini, se è vero che per entrambe le misure ablatorie è previsto che i beni da confiscare si trovino nella disponibilità diretta o indiretta del soggetto e che siano di valore sproporzionato rispetto al reddito dichiarato o all'attività economica esercitata, è altresì vero che il requisito alternativo della provenienza illecita del bene (qualificabile come frutto o reimpiego di proventi illeciti) è specificamente previsto solo per la confisca di prevenzione”.

Secondo la sentenza in esame, peraltro, un vero e proprio contrasto in sede di legittimità non sarebbe stato neppure ravvisabile, giacché l'unica pronuncia apparentemente espressiva di un'interpretazione difforme (della Sezione Sesta, come sopra evidenziato) “applica alla disciplina di prevenzione l'orientamento formatosi sulla confisca ex art. 12-sexies legge n. 356/1992 in modo acritico, senza porsi il problema - invece dirimente - dell'eventuale equiparabilità dei due tipi di confisca, problema invece ben presente, e risolto negativamente, all'univoco indirizzo sopra esposto. Anche l'ordinanza di rimessione propone la questione di diritto [...] dopo aver preso atto dei due diversi indirizzi (quello negativo sulla confisca di prevenzione e quello, positivo, sulla confisca ex art. 12-sexies legge n. 356/1992), sull'esplicito presupposto che vi sia la stessa ratio legis e che i testi legislativi siano del tutto sovrapponigli. Non v'è dubbio, però, che così non sia. La differente struttura normativa delle due confische è di tutto rilievo. In particolare, quella ex art. 12-sexies è legata alla commissione di alcuni reati, mentre l'accertata commissione di reati non è presupposto necessario per il giudizio di pericolosità; la confisca c.d. allargata è legata alla non giustificabilità della provenienza delle utilità ed alla sproporzione rispetto ai redditi dichiarati o alla propria attività economica, quella di prevenzione aggiunge (profilo estraneo alla confisca ex art. 12-sexies) in alternativa (ovvero quando) la riconducibilità dei beni, sulla base di sufficienti indizi, al frutto di attività illecite ed al reimpiego delle stesse”.

2.2 La conclusione, ad avviso delle Sezioni Unite, è dunque che si tratti “di provvedimenti ablatori che agiscono in campi diversi ed hanno diverse latitudini operative. La parziale (ma essenziale) diversità dei presupposti legittima d'altronde, la parziale diversità delle due discipline, nell'ambito di una discrezionalità politico-legislativa che l'autorità giudiziaria deve rispettare [...]. Risulta del resto coerente con l'evidenziata, diversa struttura normativa che per la confisca ex art. 12-sexies, che prevede che il requisito della sproporzione debba essere confrontato con il reddito dichiarato o con la propria attività economica, si possa tener conto dei redditi, derivanti da attività lecita, sottratti al fisco (perché comunque rientranti nella propria attività economica)”.

Soluzione, invece, non applicabile alla confisca di prevenzione, “per la quale rileva - e dunque non è deducibile a discarico - anche il fatto che i beni siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego. Sicuramente l'evasione fiscale integra ex se attività illecita (contra legem) anche qualora non integri reato; né si può ignorare che la sottrazione di attività, pur intrinsecamente lecite (e cioè da impresa palese, non da mafia), agli obblighi fiscali (in tutto o in parte), inevitabilmente porta con sé altre connesse illiceità, non essendo neppure immaginabile che l'evasione fiscale non comporti altre correlate violazioni che parimenti locupletano il soggetto o sono strumentali all'illecito arricchimento (condotte di falso, in ambito contributivo, sulla disciplina del lavoro, ecc), posto che - allo stato attuale della normativa, per l'interconnessione tra i vari rami dell'ordinamento - sommergere i profitti significa anche eludere tutte le connesse discipline (ancorché di rango amministrativo o privatistico), altrimenti l'evasione fiscale si autodenuncerebbe, esito che ovviamente nessun evasore vorrebbe conseguire e che, soprattutto, non consentirebbe il perseguito arricchimento. È poi del tutto ovvio che [...] in caso di evasione fiscale si attua inevitabilmente reimpiego delle utilità che ne siano frutto nel circuito economico dell'evasore, con una confusione di utilità lecite-illecite che è proprio quello che la normativa vuole impedire, confusione che si implementa nella successione dei periodi d'imposta (con una sorta di anatocismo dell'illecito per l'inevitabile effetto moltiplicatore)”.

2.3 Le Sezioni Unite concludono la propria disamina segnalando altresì che l'approccio esegetico dominante, espressamente condiviso, deve ritenersi in linea con “i più rilevanti dieta della Corte Costituzionale e della Corte Europea dei diritti dell'uomo”; quanto alla “principale delle obiezioni che la dottrina sviluppa sul tema, e cioè la preoccupazione di incoerenza sistematica, posto che - si sostiene - con la soluzione qui adottata si verrebbe ad introdurre una confisca, per l'evasione fiscale, anche in casi in cui la legislazione specifica non la contempla”, la sentenza Repaci precisa che “non si verte in ipotesi di mera evasione fiscale, ma di evasione compiuta da soggetto nel contempo giudicato, per la concreta ricorrenza di tutti i presupposti di legge, socialmente pericoloso. Non si tratta, infatti, di valutare in positivo l'evasione fiscale in sé come fonte di pericolosità sociale, ed in ciò radicare la confisca, ma di escludere (dunque, in negativo) che la stessa possa essere addotta quale giustificazione (anche parziale) dell'illecito accumulo, in soggetto - vale ribadire - giudicato pericoloso aliunde”.

3. I principi affermati si rivelano perciò, ictu oculi, antitetici rispetto all'interpretazione offerta dalla Corte di appello di Napoli nella fattispecie oggi in esame, tanto da imporre l'annullamento dell'ordinanza impugnata (con rinvio alla medesima Corte territoriale per un nuovo esame, alla luce dei principi de quibus e delle indicazioni di cui appresso). Né può assumere alcuna valenza l'osservazione difensiva che punta a far risaltare come nella vicenda sottoposta allo scrutinio delle Sezioni Unite fossero state addebitate al proposto specifiche condotte criminose ed un'evasione fiscale di ben più rilevante consistenza: la sentenza Repaci, come emerge con chiarezza dagli ampi stralci della motivazione appena riportati, offre infatti una disamina di taglio assolutamente generale, senza in alcun modo muovere dalle peculiarità del caso concreto.

Deve parimenti disattendersi l'assunto della difesa secondo cui il ricorso presentato dal P.g. territoriale dovrebbe intendersi formulato in relazione ad un vizio di motivazione (risultando perciò inammissibile, attesa la riserva del sindacato di legittimità, in tema di misure di prevenzione, alle sole ipotesi di violazione di legge: v., a riguardo, Cass., Sez. V, n. 19598 dell'08/04/2010, Palermo); in vero, già il riferimento alla prospettata, erronea lettura del dato normativo - quanto all'interpretazione della portata della disgiuntiva "o" nel testo del più volte ricordato art. 1 ter - impone di considerare l'impugnazione del tutto rituale.

3.1 A proposito dell'anzidetta disgiuntiva, la difesa del T. si è particolarmente soffermata sui principi affermati da una sentenza della Sezione Sesta di questa Corte (n. 49876 del 28/11/2012, Scognamiglio, Rv 253956), che - pur sempre in tema di confisca ex art. 12-sexies del d.l. n. 306/1992 - ha sostenuto come in detta norma “il riferimento, quale parametro di accertamento presuntivo della legittima provenienza dei beni oggetto di ablazione, alla proporzione tra i valori delle utilità acquisite letti in raffronto al binomio tra il reddito dichiarato dall'interessato ai fini fiscali o alla propria attività economica non va inteso in senso alternativo ma concorrente”. Nella motivazione della sentenza Scognamiglio si rappresenta che “una ricostruzione concorrente e non alternativa dei riferimenti al reddito fiscalmente comprovato piuttosto che alla presenza di provviste finanziarie comunque provenienti dalla lecita attività propria dell'interessato pur se prive di riscontro reddituale, consente all'interprete di considerare, per escludere la presunzione della illegittima provenienza delle risorse patrimoniali accumulate, tutte le fonti lecite e proporzionate di produzione, quali che esse siano. Non rileva che tali fonti siano costituite dal reddito dichiarato ai fini fiscali ovvero dal giro di affari comunque connesso all'attività economica svolta, anche se non evidenziato, in toto o in parte, nella dichiarazione dei redditi: la non proporzionalità del primo finisce con l'essere superata dalla proporzionalità del secondo giacché, diversamente opinando, si finirebbe per penalizzare il soggetto sul piano patrimoniale non per la provenienza illecita delle risorse accumulate, ma per l'evasione fiscale posta in essere, condotta antigiuridica quest'ultima che, pur sanzionabile sotto il profilo fiscale, esula dalla ratio e dal campo operativo dell'istituto previsto dal richiamato art. 12-sexies”.

Non può tuttavia trascurarsi che, anche al fine di una corretta interpretazione della ricordata disgiuntiva, le Sezioni Unite di questa Corte hanno appena ribadito come il presupposto per l'operatività della confisca di cui all'art. 12-sexies del d.l. n. 306 del 1992 sia costituito da una sentenza di condanna o di applicazione di pena su richiesta (per reati di cui a un tassativo catalogo normativo, fra i quali non rientrano le violazioni tributarie, ove di rilevanza penale), non già la ritenuta pericolosità del soggetto; ed un conto è discutere di un bene che possa intendersi derivante da condotte illecite pregresse (pur non essendo necessario accertare alcuna pertinenzialità diretta fra lo stesso ed il reato presupposto: v., in proposito, Cass., Sez. V, n. 19358 del 21/02/2013, Rao), tutt'altro è che la ragione fondante il provvedimento ablatorio si rinvenga nel dato che la disponibilità di un bene (di valore sproporzionato alle entrate lecite di un soggetto del quale sia stata comunque valutata in positivo la pericolosità) risulti coerente con le ragioni di quella - già accertata aliunde -pericolosità.

Come si ricorderà tra breve, la confisca di prevenzione può riguardare: a) beni di valore sproporzionato al reddito dichiarato od all'attività economica svolta, ovvero b) beni che (sulla base di sufficienti indizi) costituiscano frutto o reimpiego di attività illecite; perciò, la previsione di cui all'art. 2-ter della legge n. 575 del 1965 contiene una pluralità di disgiuntive, che è ragionevole interpretare in senso coerente l'una all'altra, ed è del tutto indifferente che i beni sub a) siano o possano presumersi derivanti da condotte illecite, perché questi -a prescindere dalla proporzione rispetto alle condizioni economiche del soggetto -rientrano già nella seconda categoria.

3.2 La necessità di leggere in termini alternativi il riferimento ai redditi od all'attività economica, quanto meno ai fini della confisca qui in esame, risulta altresì rispondente ad esigenze obiettive: in vero, l'attività economica di un soggetto può prescindere dai redditi percepiti e dichiarati laddove, ad esempio un soggetto in un anno non abbia goduto di entrate solo grazie alla propria attività lavorativa, ma anche attraverso vendite di beni che già gli appartenevano; d'altro canto, il riferimento all'attività economica svolta può avere estrema rilevanza in casi - piuttosto che di evasione fiscale - di possibile sopravvalutazione del reddito dichiarato ai fini delle imposte, operata onde giustificare acquisti derivanti da proventi di reato.

Si pensi all'ipotesi di un imprenditore che presenti i profili soggettivi richiesti dalla normativa in tema di misure prevenzione per l'adozione a suo carico dei provvedimenti ivi contemplati, e che risulti aver dichiarato redditi di notevole consistenza, derivanti da una attività apparentemente lecita, proprio perché interessato a celare o dissimulare la provenienza illecita di alcuni beni nel frattempo acquisiti: in quel caso, i beni in questione potrebbero intendersi di valore proporzionato ai redditi suddetti, ma non invece all'attività economica (ove questa, al contrario, sia stata del tutto modesta e non rispondente, per difetto, a quanto dichiarato al fisco).

3.3 Il raffronto della norma ex art. 2-ter con la diversa formulazione dell'art. 12-sexies del d.l. n. 306 del 1992 consente peraltro di ricavare ulteriori argomenti a sostegno della tesi qui sostenuta. Ai sensi della prima delle due previsioni citate, oggi riprodotta nell'art. 24 del d.lgs. n. 159 del 2011, è infatti previsto il "sequestro dei beni dei quali la persona nei cui confronti è iniziato il procedimento risulta poter disporre, direttamente o indirettamente, quando il loro valore risulta sproporzionato al reddito dichiarato o all'attività economica svolta, ovvero quando, sulla base di sufficienti indizi, si ha motivo di ritenere che gli stessi siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego"; il comma successivo (il terzo) si apre con la previsione che "con l'applicazione della misura di prevenzione il Tribunale dispone la confisca dei beni sequestrati dei quali non sia stata dimostrata la legittima provenienza".

Il citato art. 12-sexies dispone invece che nei casi di condanna od applicazione di pena su richiesta per determinati reati "è sempre disposta la confisca del denaro, dei beni o delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica".
Deve pertanto notarsi che il requisito di una provenienza certamente legittima dei beni, quale elemento impeditivo - ove dimostrato - dell'adozione di un provvedimento ablatorio risulta espressamente contemplato dal solo art. 2-ter. l'art. 12-sexies statuisce invece che la confisca operi laddove il condannato (per specifiche ipotesi di reato) non sia in grado di fornire una giustificazione della provenienza - senza ulteriori qualificazioni - di disponibilità economiche che si assumano sproporzionate. Il rilievo, ai fini della presente disamina, non sembra di poco momento, anche perché - se l'aggettivo "legittima" non figura nel testo dell'art. 12-sexies - di "giustificare la legittima provenienza" parlava invece il pur abrogato art. 12-quinquies, comma secondo, espunto dal giudice delle leggi nel 1994, sì da far intendere che l'omissione di detto aggettivo nella norma immediatamente successiva potesse non essere casuale.

Ad ogni modo, abbia o meno tale omissione un significato ai fini dell'interpretazione del d.l. n. 306/1992, per scongiurare che un bene sia sottoposto a confisca di prevenzione è innegabilmente necessario dimostrarne non solo la provenienza tout court, ma anche che si tratti di provenienza legittima, non consentendo l'art. 2-ter alcuna differente lettura: e ciò non può dirsi accada laddove la giustificazione della disponibilità del bene de quo venga offerta indicandolo quale provento di evasione fiscale. A fortori qualora - come nella fattispecie oggi in esame - non ci si trova dinanzi a somme direttamente e lecitamente ricavate da un imprenditore nell'esercizio della sua attività, e poi da questi sottratte all'imposizione fiscale: nel caso del T. , per diretta ammissione del proposto cui la Corte territoriale riconosce fede, si discute (anche) di beni immobili che risultano acquistati con somme non dichiarate all'erario. L'origine delle disponibilità non denunciate al fisco, nel momento in cui le somme derivanti dall'attività imprenditoriale entrarono nel patrimonio del proposto, fu senz'altro lecita; ma ciò non è per il denaro ivi rimasto una volta realizzata Invasione tributaria, e men che meno per i beni che lo stesso consentì di acquistare (vuoi al T. , vuoi ai suoi familiari). Si tratta, al contrario, di beni di cui la legittima provenienza non risulta affatto comprovata, ed è anzi per tabulas smentita dall'evidenza delle stesse allegazioni difensive.

P.Q.M.

Annulla il decreto impugnato, con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte di appello di Napoli.
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